Catalogna
Vivere in Catalogna oggi tra rancori e propaganda. L’opinione
Patrizia La Daga

Patrizia La Daga

Giornalista milanese, co-fondatrice di ItalianiOvunque.com. Si è sempre occupata di temi economici, sociali e culturali e ha condotto trasmissioni televisive su emittenti private. Dal 1999 risiede in Spagna, a Barcellona, dove per alcuni anni ha fondato e diretto la rivista a diffusione nazionale "Ekò", specializzata nella new economy. Nel 2012 ha creato Leultime20.it, sito dedicato ai temi letterari e culturali. Dal 2018 organizza e presenta l'evento di storytelling motivazionale Leadership Arena con grandi personaggi italiani e spagnoli. Leggere, viaggiare e fare sport sono le sue grandi passioni (dopo i suoi due figli).

Quello che sta accadendo in Catalogna nelle ultime settimane viene da lontano. Per gli italiani che conoscono Barcellona e dintorni soltanto da turisti può apparire sorprendente il braccio di ferro che il Govern, l’autorità regionale, ha intrapreso contro il governo di Madrid, ma per chi risiede da anni da queste parti era scontato che il nazionalismo catalano sarebbe arrivato ai ferri corti con la Spagna.

Il patetico teatrino a cui assistiamo in questi giorni, tuttavia, è così sconcertante da aver superato ogni ragionevole previsione. E chi paga il prezzo di questo insensato muro contro muro è la gente, catalana o no, che in Catalogna ci vive, ci lavora e la ama. E non vuole vederla isolata e in miseria. Gente che riconosce che la Spagna è un Paese con una democrazia solida, che ha sempre permesso ai suoi cittadini di vivere con la massima libertà. 

Risiedo a Barcellona da oltre diciotto anni, abbastanza per sapere che nessuno da queste parti è discriminato ed oppresso. Chi usa parole come dittatura, fascismo o tortura fa pura propaganda e, come dice lo scrittore Javier Marías, offende coloro che nel mondo hanno davvero subito torture e privazioni della libertà.

Indigna che accuse come queste vengano da politici che da settimane hanno preso in ostaggio il Parlament, impedendo lo svolgimento dei lavori e riducendo al silenzio forzato l’opposizione (è questa la democrazia?). Indigna che gli stessi politici obbediscano ciecamente a persone che nessuno ha votato, come gli attivisti di ANC e Omnium (i cui due capi oggi sono in carcere).

Catalogna Il vero problema è che le fantasie di potere di Puigdemont e dei dirigenti catalani, che per qualche breve momento si sono sentiti già seduti sul trono del tanto desiderato feudo, sono state prese sul serio dalla sinistra anticapitalista più estrema, quella che si proclama anarchica e antisistema, ma che vuole una Repubblica da governare. Ed è così che il condottiero Puigdemont (che in parlamento non ha mai avuto la maggioranza senza le ali più oltranziste del “catalinismo” indipendentista) si è trovato schiacciato tra due fronti. Da un lato Madrid e il mondo intero che gli fanno notare che una secessione basata su un referendum illegale è un grave reato e dall’altro gli alleati separatisti che lo spingono a dichiarare unilateralmente l’indipendenza della Catalogna.

Per non perdere la faccia (e forse a questo punto anche qualche anno di vita nelle carceri spagnole) e guadagnare tempo Puigdemont le ha provate tutte, ma la corda ormai è tirata al massimo ed è probabile che a breve, con l’entrata in vigore del famoso articolo 155 della Costituzione spagnola, si spezzi del tutto.

Uno scontro voluto a tutti i costi per assicurarsi un ruolo da martire. Sarebbe bastato indire nuove elezioni in Catalogna, come più voci autorevoli sostengono da tempo (tra cui la direzione del periodico catalano La Vanguardia), per trovare una possibile via d’uscita. Ma a quanto pare, Puigdemont è intenzionato a proseguire nella sua folle corsa verso l’abisso. (Vedi aggiornamento in fondo)

Se non potrà essere ricordato per aver governato una Catalogna indipendente, il signor Puigdemont potrà sempre entrare nei libri di scuola come colui che si è sacrificato per la causa, dopo aver affondato una delle più effervescenti economie dell’Europa occidentale.

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L’Ex Presidente Artur Mas in un’intervista del 2015 mentre dichiara che le banche non se andranno dalla Catalogna

Tutti i nodi della sventata propaganda anti-indipendentista stanno venendo al pettine e ci sarebbe da ridere se non ci fosse da piangere. Il catalanismo più estremo ha ripetuto per anni (complici anche i media locali che inizialmente lo hanno sostenuto per poi rendersi conto di aver superato il limite) che la nuova nazione catalana sarebbe stata accolta a braccia aperte dall’Unione Europea e dalle Nazioni Unite, che banche e multinazionali avrebbero fatto la fila per mettere la loro sede a Barcellona (questa intervista del 2015 in cui Artur Mas dichiara che “le banche non solo non se ne andranno, ma litigheranno per restare in Catalogna” è solo un esempio della miopia indipendentista) e che le pensioni sarebbero state tra le più alte del mondo.

Così, una parte dei già ricchi catalani ha pensato che separarsi dalla Spagna fosse un’idea meravigliosa (il Barça però deve continuare a giocare nella Liga spagnola e Gerard Piqué in nazionale, non scherziamo che queste sono cose serie…). Il ragionamento è stato: siamo di estrema sinistra è vero, ma i soldi li vogliamo spartire tra di noi, non con le altre regioni. Il portafogli, è cosa nota, pende sempre un po’ più a destra…

Vivere in Catalogna oggi

Questa la situazione fino a qui. E speriamo di non dover raccontare di violenze, perché a questo punto nulla è escluso. Gli animi sono surriscaldati, le manifestazioni piccole e grandi, di entrambi gli schieramenti, si susseguono e l’esasperazione regna sovrana.

Vivere a Barcellona in questi giorni significa restare imbottigliati nel traffico perché un corteo serale pieno di candele ha completamente incerato la Diagonal creando cadute di pedoni e incidenti di moto. Morale: 24 ore di chiusura della più importante via cittadina per poterla ripulire (con soldi dei contribuenti).

Vivere in Catalogna oggi significa anche parlare di politica solo con chi “sta dalla tua parte” per evitare litigi, significa sorbirsi un taxista infervorato che non vede l’ora che Rajoy mandi i carri armati per fargli vedere “di che pasta sono fatti i catalani“.

Ma c’è di peggio. Vivere in Catalogna ai nostri giorni significa accettare che nelle scuole i genitori creino gruppi di WhatsApp di sole famiglie catalane, escludendo spagnoli e stranieri “che non possono più capire”. Significa bambini che si picchiano nel cortile delle scuole perché i genitori appartengono a schieramenti opposti e, ancora più doloroso, significa trovare la frase “sappiamo dove abiti” dipinta sulla facciata di casa quando rientri dalla manifestazione pro-unità di Spagna, come è accaduto a un conoscente

E ancora, vivere in Catalogna significa veder crollare il mercato immobiliare dopo che aveva finalmente ricominciato a funzionare (si moltiplicano le vendite annullate), significa indici di borsa e investimenti in caduta libera, sedi di imprese spostate altroveturisti che, a ragione, cancellano prenotazioni e scelgono mete più tranquille. E a breve toccherà ai posti di lavoro. La favola indipendentista è già diventata un film horror. 

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I catalani si sono sempre vantati di essere un popolo civile, aperto ed accogliente. Eppure, a causa dell’insensatezza dei suoi governanti, oggi quasi metà dei cittadini di questa regione è accecato da un odio che spesso rasenta il fanatismo.

Vivere in Catalogna oggi significa assistere al declino di una delle più belle ed efficienti località del mondo, già drammaticamente aggredita lo scorso agosto da un nemico reale: il terrorismo. È contro chi vuole annientare la nostra civilizzazione che bisogna combattere. Soffiare sul vento dell’odio in casa propria è avere voglia di suicidarsi.

E questo post, può anche terminare qui, in attesa di sviluppi. Ma se qualcuno è curioso di sapere come si è arrivati a questo punto, qui sotto trova il seguito.

La pulizia (e polizia) linguistica nelle scuole

Il processo di catalanizzazione è stato lento ma inesorabile. Ed è partito dalla scuola. I più anziani, testimoni viventi della dittatura franchista, avevano motivi ideologici per non amare la Spagna, tanto che molti di loro ancora oggi parlano poco e male la lingua di Madrid, ma era sulle menti più giovani che i partiti catalani sapevano di dover intervenire. Così, poco a poco, le ore di catalano sono aumentate in tutti gli istituti. Gli ispettori, fedeli a una politica di pulizia (e polizia) linguistica, arrivavano a sorpresa anche nelle scuole straniere per verificare che gli alunni fossero in grado di esprimersi correttamente nella lingua locale. In Università non andava meglio: se qualche studente pretendeva di sostenere un esame in spagnolo, si poteva arrivare al paradosso (e tuttora accade) di chiamare un interprete, benché il professore fosse perfettamente bilingue catalano–spagnolo (come tutti o quasi in città).

La catalanizzazione del settore pubblico

Le chicche di intolleranza si sono poi rivolte a tutto ciò che è pubblico. Pubblicità, vetrine dei negozi, nomi dei prodotti nei supermercati, tutto doveva essere rigorosamente scritto in catalano. Persino gli scrittori catalani più famosi come Ildefonso Falcones (La cattedrale del mare, oltre sette milioni di copie vendute nel mondo) sono stati accusati di tradimento della patria per   aver osato scrivere i loro libri in lingua spagnola. Un idioma parlato “soltanto” da 400 milioni di persone, contro i 10 milioni in grado di leggere in catalano.

Le rivendicazioni di maggiore autonomia

L’orgoglio linguistico e culturale è stato solo il primo passo. Poi, con la grande crisi internazionale del 2008, sono arrivate le rivendicazioni economiche e i venti separatisti. Fino a quel momento la Catalogna, e Barcellona in particolare, aveva goduto di una spettacolare crescita. In pochi anni le amministrazioni locali avevano trasformato la città in una marca affermata in tutto il mondo, capace di attirare turisti e capitali. Sempre più stranieri sceglievano la capitale catalana per farne la propria residenza. Quando il lavoro ha cominciato a scarseggiare e le banche a fallire, la politica del vittimismo ha trovato terreno fertile per i suoi piani. Tutta colpa di Madrid, insomma.

Credere che le motivazioni degli indipendentisti siano dovute a una ridotta autonomia e comparare la situazione catalana con quella di alcune regioni italiane, come qualcuno ha fatto, significa non conoscere il sistema politico spagnolo. In Spagna l’autonomia è ampia e reale. Istruzione, sanità e pubblica sicurezza sono guidate dalle autorità locali (si è visto nel caso dei Mossos D’Esquadra, la polizia della Generalitat il cui capo oggi è in libertà vigilata con l’accusa di sedizione). La questione ha due pilastri: soldi e potere. Una vera novità.

La strategia del vittimismo

La Catalogna è sempre stata la regione più industrializzata e ricca di Spagna. La crisi ha colpito duro per anni ed ha alimentato le lamentele dei catalani che hanno visto (o meglio sono stati spinti a vedere) in Madrid la causa di tutti i loro mali. Non che il governo di Rajoy non abbia responsabilità. Probabilmente, qualche concessione in più in tempi non sospetti avrebbe aiutato a calmare gli animi già troppo “calienti” dei catalani più oltranzisti. Sta di fatto che la strategia del vittimismo è diventata parte integrante della politica catalana.

Per qualche anno i media locali hanno sostenuto le politiche nazionaliste di Artur Mas prima e di Puigdemont dopo, intanto la società si spaccava. Le bandiere catalane hanno cominciato ad apparire ai balconi delle case e pure sulle auto. I separatisti, guidati da partiti “antisistema” (ma come si fa ad essere antisistema e fare un partito?), abili nel far scendere la gente in strada, hanno convocato manifestazioni di massa per dimostrare che tutti i catalani desideravano creare una nuova nazione. I numeri, tuttavia, li hanno sempre e inequivocabilmente smentiti. Sono tanti, è vero. Ma non sono tutti. E la democrazia non funziona a senso unico.

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La frattura sociale

Il catalanismo a tutti i costi ha provocato una grave spaccatura sociale. Quella che viene chiamata maggioranza silenziosa, ovvero i cittadini che si sentono catalani quanto spagnoli, per molto tempo hanno continuato a tacere e a lavorare, sopportando la propaganda nazionalista dei loro governanti. Il senso di esasperazione tuttavia si è fatto sempre più potente e in breve la frattura sociale è diventata enorme. Ci sono famiglie in cui i parenti non si parlano da mesi. Ai bambini di pochi anni si fanno indossare bandiere come mantelli, lavando i giovani cervelli con storie patriottiche.

Salvo rare eccezioni, imprenditori e professionisti, consci delle disastrose conseguenze di un’eventuale indipendenza sull’economia catalana, si sono schierati con il governo centrale, cominciando, prima timidamente e poi a gran voce, ad avvisare che non avrebbero perso tempo a spostare le loro attività altrove. Detto fatto. Mentre scrivo queste righe sono 1300 le aziende che hanno spostato la loro sede fuori dai confini catalani e la diaspora è destinata a continuare.

In un’epoca in cui tanti si prodigano per abbattere muri e confini è davvero triste, e non trovo un’altra parola, aver dovuto scrivere questo editoriale.

AGGIORNAMENTO 1/11/2017: In seguito all’entrata in vigore dell’articolo 155, alla convocazione di nuove elezioni in dicembre e alla destituzione di Puigdemont (già fuggito a Bruxelles) e del suo Govern, la situazione a Barcellona pare essere un po’ più distesa. Qualcuno si sente tradito, altri sorridono alle battute sarcastiche che girano sull’eroicità dell’ex-President, tutti però, dopo settimane di tensione, manifestazioni ed elicotteri incessantemente in volo, aspirano a un po’ di normalità. Auguriamoci che duri.

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