Antonio Fini
Antonio Fini, il calabrese che ha conquistato New York a passo di danza
Patrizia La Daga

Patrizia La Daga

Giornalista milanese, co-fondatrice di ItalianiOvunque.com. Si è sempre occupata di temi economici, sociali e culturali e ha condotto trasmissioni televisive su emittenti private. Dal 1999 risiede in Spagna, a Barcellona, dove per alcuni anni ha fondato e diretto la rivista a diffusione nazionale "Ekò", specializzata nella new economy. Nel 2012 ha creato Leultime20.it, sito dedicato ai temi letterari e culturali. Dal 2018 organizza e presenta l'evento di storytelling motivazionale Leadership Arena con grandi personaggi italiani e spagnoli. Leggere, viaggiare e fare sport sono le sue grandi passioni (dopo i suoi due figli).

Ci sono storie che hanno il sapore della rivincita e quella di Antonio Fini, ballerino, coreografo, insegnante e produttore di uno dei più importanti festival di danza italiana a New York, è una di quelle. Questo intraprendente italiano, oggi molto noto nella comunità dello show business newyorkese, non aveva mai ballato prima dei sedici anni e non aveva a disposizione centri di eccellenza in cui imparare. La passione per la danza, tuttavia, insieme a un grande talento e a una volontà di ferro, hanno cambiato la sua vita.

Trentaquattro anni, di Villapiana, paesino di cinquemila anime in provincia di Cosenza, Antonio Fini vive da anni nella grande mela, ma torna ogni estate nella sua Calabria natale, dove dirige la versione italiana del festival che porta il suo nome. Un evento che si ripete ogni anno dal 2011 e che attira non solo un grande pubblico di appassionati, ma anche molti danzatori che aspirano a una carriera di successo, grazie ai premi assegnati durante i suoi festival: il nostrano Alto Jonio dance Award e l’Italian Intenational dance Award.

Antonio Fini

 

Recentemente, Antonio Fini, che per non farsi mancare nulla è anche istruttore di pilates e master reiki, è stato giudice esterno del talent show Ballando on the road, condotto da Milly Carlucci e finalizzato alla selezione dei ballerini del noto programma Ballando con le stelle in onda in queste settimane, il sabato sera su Raiuno.

Raggiunto telefonicamente a New York, Antonio Fini, da poco nominato Ambasciatore per la divulgazione dell’arte come mezzo di pace dall’Agency for Cultural Diplomacy, racconta in questa intervista come si parte dal profondo Sud del nostro Paese per arrivare a costruirsi una brillante carriera nella città che “non dorme mai” cantata da Liza Minnelli.

Antonio, come è nata la tua passione per la danza?

Un giorno mia madre mi portò a uno spettacolo e rimasi affascinato. Avevo sedici anni e le dissi che volevo provare a ballare. Fino a quel momento avevo fatto equitazione e arti marziali. Spesso si insegna ai ragazzi che a 16 anni si è troppo vecchi per cominciare ma, almeno per gli uomini, non è vero. Il mio maestro, Antonio Gentile, venuto a mancare lo scorso anno, quando mi iscrissi alla sua scuola mi disse: “Non sai fare nulla ma sei alto e hai presenza, proviamo”. Lui mi ha dato le basi, la tecnica.

Dalla Calabria poi ti sei trasferito a Milano per studiare al Centro Studi Coreografici del Teatro Carcano. Com’è stata questa esperienza?

Io studiavo soprattutto modern dance e acrobatica. Volevo fare circo, ma un giorno ho scoperto le audizioni del Teatro Carcano di Milano perché la madre di una mia compagna della scuola di danza mi informò. Decisi di presentarmi alle audizioni di danza classica dove mi sentii dire di nuovo: “Antonio Fini, non sai fare nulla, ma hai dei bei piedi e hai una buona apertura, proviamo”. E io provai. Avevo diciannove anni.

Andò bene a quanto pare…

Sì! Il primo mese lo passai nei vari corsi base, fino a che un giorno non incrociai sulle scale la maestra russa che mi aveva fatto l’audizione. Lei mi chiese perché non ero nella sua classe e io risposi: “Posso?”. Mi prese nel livello intermedio, poi in quello avanzato fino a quello di perfezionamento in pochissimo tempo. Mi trovai a fare quattro ore e mezza di danza classica al giorno, fino a quando il primo ballerino della compagnia si infortunò e io presi il suo posto.

Come ti mantenevi?

Mia madre mi disse che se invece della scuola di danza fossi andato all’università mi avrebbe comunque mantenuto per i cinque anni di studi, perciò dovevo mettercela tutta per realizzare i miei sogni entro quel tempo limite. In tre anni mi diplomai in danza classica.

Come arrivi a New York?

Nel 2007 vinsi una borsa di studio e mi trasferii. Non sapevo l’inglese e dopo sei mesi un’amica mi disse: “Basta fare lo stallone italiano sceso ieri dall’aereo!” Così mi misi a studiare. Il mio obiettivo era entrare nella prestigiosa compagnia Martha Graham, ma non ottenni il contratto come speravo perciò, dopo due anni di vita a New York, scelsi di tornare in Italia. Mi mancava molto la famiglia e per stare tanto lontano dal mio Paese ci doveva essere un buon motivo che in quel momento non avevo. Il ritorno però si dimostrò un’opportunità e oggi so che sono stato fortunato a non ricevere un contratto. Perché in queste compagnie si danza in giro per il mondo quasi 365 giorni all’anno e non puoi fare altro. Ho visto danzatori che dopo 20 anni, finita la carriera, si ritrovano con nulla e magari fanno i fisioterapisti. Io, invece, ho sempre voluto essere libero di danzare per me. Sono davvero un calabrese testa dura, forse se non mi hanno dato un contratto al tempo è perché ero un po’ ribelle, ma così ho potuto fare tante altre cose, tra cui, l’anno scorso, danzare come guest artist proprio con la compagnia Martha Graham.

Come nasce il tuo primo Festival?

Una volta rientrato in Calabria mia cugina, che aveva messo su una piccola scuola di danza, mi disse che era disponibile un teatro all’aperto da cinque mila posti a Villapiana e mi propose di organizzare un concorso. Io rilanciai con l’idea del festival. Era un progetto ambizioso e rischioso. Pensavo che organizzare un evento di questa portata in una regione senza infrastrutture come la Calabria, in un luogo così difficile da raggiungere, sarebbe stato penalizzante. Cominciai a invitare tutti i miei contatti e venne anche Michael Mao, coreografo e “mostro sacro” nel mondo della danza, che alla fine di quell’estate mi invitò a tornare a New York con un visto artistico. Si era chiusa una porta e si aprivano grandi portoni….

Dopo il successo del Primo festival in Italia torni negli Usa e crei il festival “gemello”, ovvero l’Antonio Fini dance Festival New York?

Sì. Il mondo della danza è molto legato agli italiani negli Stati Uniti. Ho pensato fosse doveroso celebrarli e creare anche qui un riconoscimento per i migliori. Così è nato l’Italian International Dance Award all’interno dell’Antonio Fini dance Festival. I miei festival inizialmente duravano tre giorni, ora durano tre settimane. Io metto sempre una tarantella all’inizio o alla fine dei mio festival. È importante per le nuove generazione sapere da dove veniamo, conoscere la nostra cultura. Se rispettiamo la nostra rispetteremo anche quella degli altri. A volte vedo che c’è “disconnessione” tra gli italiani d’America. Hanno nomi e passaporto italiano, ma non sanno la lingua e non conoscono nulla della nostra cultura. Il mio festival è anche un modo per trasmettere questa cultura.

Hai ballato in molti luoghi del mondo e sei stato coreografo di diversi spettacoli tra cui uno in Kosovo, dove sei diventato una celebrità. Come mai?

Nel 2011 quando rientrai da New York un po’ afflitto per non essere stato preso dalla compagnia Martha Graham, stavo preparando una coreografia per uno show che poi fu scelta per diventare la coreografia di un’intera serata del balletto nazionale del Kossovo. La stampa locale scoprì che mia madre è arbëreshë (una minoranza etno-linguistica albanese del Sud Italia, ndr) e mi diede una visibilità incredibile. Tutti i media parlavano di me e questo mi ha aiutato molto in seguito ad ottenere la green card in America.

Tu vivi tra due mondi, quello americano e quello di casa nostra. Che cosa ti ha insegnato questa “doppia vita”?

Sul palco dell’ultimo showcase a Firenze ho detto: “Noi italiani abbiamo la cultura, poi vengono da New York a vendercela”. Il bello dell’America e che ti insegna a fare business. Noi italiani abbiamo le idee, ma loro le sanno vendere.

Che cosa vuol dire essere italiano negli Stati Uniti oggi?

Essere italiano in America oggi vuol dire stile. Gli americani riconoscono la nostra cultura, la nostra storia. La moda ha elevato il nostro nome più di qualsiasi altra cosa.

E quando torni in Italia come vedono Antonio Fini i tuoi compaesani?

Essere un italiano che vive a New York significa essere visto un po’ come lo “zio d’America”. Ma più che agli Stati Uniti in generale le persone sono interessate alla mia vita a New York, una città che è il sogno di molti. Io però ai miei allievi dico sempre che “New York è solo un biglietto aereo”, i sogni sono un’altra cosa. Bisogna lavorare tanto per realizzarli.

Il tuo sogno qual è adesso?

Vorrei avere un vero e proprio villaggio artistico. Sogno di aiutare i giovani ad essere felici. Con l’esperienza ho imparato che è il “viaggio” la cosa importante. Bisogna imparare a goderselo. Io ero sempre di corsa. Però ho capito che la cosa essenziale non è l’arrivo, ma la strada che fai con gli altri e con te stesso. È fondamentale connettersi con quello che siamo davvero.

Cosa ti manca dell’Italia quando sei a New York?

La cultura delle relazioni sociali, la famiglia, gli amici veri. Gli amici qui sono quelli con cui lavori. Pero ho due vere amiche. Due signore, una di 63 e l’altra di 67 anni. Una è un’astrologa con cui la domenica vado spesso a cena e con una bottiglia di buon vino chiacchieriamo per ore. Non credo nell’oroscopo, ma so che l’universo è energia.

Che cosa, invece, non ti manca del nostro Paese?

Per molto tempo quando ero più giovane non volevo essere calabrese, volevo essere svizzero come mio papà. Mi faceva rabbia l’assenza di strutture per la danza nella mia regione. Io sono dovuto andare fino a Milano per ballare. Non mi mancano certi comportamenti italiani, che in Calabria probabilmente sono ancora più accentuati, come favorire gli amici invece di privilegiare le persone capaci. Quello che chiamano mafia, spesso, siamo noi con i nostri vizi. In America sono più meritocratici.

Come è nata la collaborazione con Milly Carlucci per Ballando on the road?

L’ho contattata su Facebook, io sono uno che non si tira indietro, ci provo sempre. Lei mi ha risposto.Antonio Fini

Progetti a breve termine?

Il mio nuovo Tv show, The Audition che nei prossimi mesi andrà in onda su Amazon Prime. Una specie di reality-documentario sul mondo della danza. Filmiamo le audizioni che facciamo per la scuola e realizziamo dei commenti utili per spiegare come affrontare al meglio queste prove. Perché il ballerino non deve solo avere la tecnica, ma anche saper comunicare. Non c’è nulla di preparato nelle puntate, è tutto vero.

Vivi nella patria di tanti attori famosi. Mai pensato al cinema?

Sì, ci ho pensato ma più che attore mi vedo come conduttore. L’attore, come il ballerino, è uno strumento per gli altri. Io non sono solo questo, ho un’identità molto forte, sono ariete e voglio essere sempre io a condurre.

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