archivio dei bambini perduti

L’arancio dei canditi, degli agrumi, essenza di profumi e sapori delle feste, come la copertina allusiva e suggestiva di “Archivio dei bambini perduti” di Valeria Luiselli, pubblicato come tutte le altre opere della scrittrice da “La nuova frontiera”.
Una delle voci più interessanti e originali della letteratura americana, intesa tout court non soltanto statunitense, perché Valeria Luiselli racchiude già nella sua biografia più mondi: nata a Città del Messico nel 1983, laureata in filosofia alla National Autonomous University, dopo aver vissuto negli Stati Uniti, in Costa Rica, nella Corea del Sud e in Sudafrica, si trasferisce a New York per studiare letterature comparate alla Columbia University. Attualmente vive a New York e in inglese ha scritto i suoi due ultimi libri, “Dimmi come va a finire” e “Archivio dei bambini perduti”. Un pamphlet il primo, di rara e toccante autenticità, nato dal lavoro come interprete volontaria per il Tribunale Federale dell’Immigrazione di New York. Il titolo “Dimmi come va a finire” è la domanda che la figlia le rivolge spesso, da quando la madre le racconta le storie dei minori non accompagnati che incontra e di cui traduce le storie e le vite, con difficoltà infinite e immaginabili. In particolare, probabilmente per la forte carica di immedesimazione, la domanda della figlia si concentra sulla storia di due sorelline messicane, arrivate negli Stati Uniti con il numero di telefono della mamma cucito sul vestito, perché troppo piccole per poterlo memorizzare.
Il secondo è un romanzo corposo e denso, come solo Valeria Luiselli sa e può scrivere, tradotto con precisione e acribia da Tommaso Pincio: la storia del romanzo procede su tre binari, il viaggio attraverso gli Stati Uniti di una coppia e dei loro figli non consanguinei, una femmina e un maschio; i minori non accompagnati che cercano di entrare negli Stati Uniti; la vicenda degli Apache, emarginati nel loro stesso territorio.
A essere messa in risalto nella narrazione, con maestria e abilità notevoli, è la percezione che i figli mostrano sia delle relazioni familiari e della rottura che sempre più insanabile si fa spazio nella coppia, sia dei due grandi interessi che muovono il viaggio, i minori al confine con il Messico per la madre e la storia degli Apache per il padre.
Un libro potente e sofisticato, di grande consapevolezza e lucidità di visione. Sentimentale e crudele; etico e umano, per il quale non si possono che usare le stesse parole con cui la protagonista descrive le proprie impressioni di lettura riguardo i diari di Sontag:
“quando le parole di un altro entrano nella tua coscienza a quel modo, diventano piccoli fari concettuali. Non devono essere per forza illuminanti. Un fiammifero acceso in un corridoio buio, la brace di una sigaretta fumata a letto in piena notte, la cenere ardente di un fuoco quasi spento: nessuna di queste cose brilla di una luce forte per rivelare alcunchè. E lo stesso per le parole altrui. Ma a volte una piccola luce può mostrarti il mondo buio e ignoto che circonda quel bagliore, l’enorme ignoranza che avvolge ciò che crediamo di conoscere. E quell’agnizione, quel venire a patti con l’oscurità, sono più preziosi del sapere accumulato in tutta una vita.”
La mia copia di “Archivio dei bambini perduti” ricorda quella dei diari di Sontag che la protagonista legge durante il viaggio, nel cercare di rendere permanente il riverbero e l’emozione che ogni singola pagina mi regala, rileggo, sottolineo e cerco di memorizzare, trascrivo le parole da qualche parte: in un quaderno, su una salvietta, sulla mano. “Parole sottolineate una volta, due volte, a volte riquadrate e marcate ai margini.”