Pneumologa e ricercatrice specializzata in infezioni respiratorie, da 18 anni a Barcellona, Eva Polverino è una delle eccellenze mediche italiane impegnate in prima linea nella lotta al Coronavirus in Spagna. Dopo settimane di lavoro estenuanti all’ospedale Vall d’Hebron, una delle strutture d’eccellenza della sanità pubblica catalana, dove da tre anni è Senior Research Investigator, si trova in isolamento nel suo appartamento, fortunatamente in condizioni non gravi, poiché contagiata dal Covid-19.
La raggiungo telefonicamente per avere un parere competente sulla situazione e noto la stanchezza nella voce. Mi dice che da giorni fatica ad alzarsi dal letto. Ciò nonostante la sua disponibilità è ammirevole.
Decorata nel 2017 con l’Onorificenza della Stella d’Italia – nel grado di Cavaliere, concessale dal Presidente della Repubblica italiana, la dottoressa Polverino è anche fondatrice di ItaCa, struttura sanitaria che a Barcellona riunisce numerosi medici italiani di ogni specialità.
Dott.ssa, come mai ci troviamo in questa situazione, perché dopo aver visto quello che accadeva in Cina non siamo riusciti a intervenire prima?
Io mi ero già occupata della Sars e della Mers e già all’epoca c’erano stati comportamenti poco chiari da parte delle autorità cinesi. Tutti pensavamo che il Covid potesse essere qualcosa di analogo, ma quando il virus è arrivato in Italia è diventato evidente che mancavano pezzi di informazione importante. Abbiamo capito tardi che questa volta era molto peggio e adesso sappiamo che le informazioni erano parziali e camuffate, Se ci fosse stata più trasparenza avremmo preso altre misure e più rapidamente perché nella lotta al coronavirus il tempo è determinante.
Come vi siete organizzati per far fronte alla situazione voi medici? Ci sono stati problemi in ospedale?
Devo dire che al Vall d’Hebron sono stati capaci di organizzarsi molto velocemente e di assorbire qualcosa come 100 pazienti al giorno. In pratica di aprire un reparto al giorno. Siamo passati da 20 a 650 pazienti in una settimana. Abbiamo avuto una settimana di vantaggio sull’Italia e vedevamo anche cosa stava accadendo a Madrid, perciò ci siamo attivati immediatamente per distribuire gli spazi. Quasi tutto l’ospedale è diventato Covid nel giro di una settimana. Il che significa che abbiamo cancellato ogni intervento non imprescindibile, mandato a casa le persone che potevano attendere e trasformato il reparto in Covid. Gli internisti, pneumolgi e infettivologi, che sono quelli capaci di liderare questa situazione, hanno creato dei gruppi di lavoro. Ciascuno di noi aveva uno specializzando e un medico di un’altra specialità che ci faceva da supporto. Questo ha permesso di quintuplicare la capacità di ricezione dell’ospedale. Sono stati creati protocolli per tutto. I medici di riabilitazione, quelli meno occupati coi pazienti, sono stati messi ad organizzare il lavoro di assistenza alle famiglie per dare informazioni sui loro familiari ricoverati.
Sui media si è molto parlato della mancanza di materiale sanitario per la protezione dei medici. Avete avuto problemi in ospedale?
Noi no, il materiale è arrivato, però è vero che dobbiamo farne un uso responsabile e non possiamo sprecarlo. Il gel alcolico sai che ti deve durare una settimana, se no poi ti lavi le mani col sapone…
C’è una grande polemica sull’uso delle mascherine e la gente alla fine è confusa. Alla fine, mascherina sì o mascherina no?
La mascherina è una barriera. Dall’interno verso l’esterno e viceversa. Se io sono malata evita che le goccioline di saliva che emetto parlando si posino sulle superfici intorno a me. La parte contaminata è quella interna. Se invece io sono per strada e qualcuno tossisce ho una barriera che mi protegge, perché la parte contaminata è quella esterna. Ma se io la mascherina la tocco per sistemarmela sul viso e poi con la mano apro la porta, quello che apre la porta dopo di me e poi magari si tocca il naso, il virus finisce per averlo in faccia.
Qual è il modo corretto di usare la mascherina?
La mascherina va tolta con estrema cautela e va toccato solo il laccetto laterale. Bisogna fare attenzione a dove la si lascia e comunque bisogna sempre lavarsi le mani. Io ho visto la gente nei supermercati stropicciarsela sul viso perché è scomoda da portare. Così non serve a nulla, se usata male dà una falsa protezione. L’unica cosa che davvero protegge sempre è la distanza e lavarsi le mani. Certo, la mascherina è fondamentale se sei malato, se pensi di esserlo e se devi assistere qualcuno. Noi, ovviamente, in ospedale siamo obbligati a portarle.
Come sta vivendo la malattia in questo momento?
La malattia in molti casi ha un’evoluzione a due fasi. Per me i sintomi sono stati inizialmente abbastanza lievi con febbre che andava e veniva, una forte congestione nasale e giramenti di testa. Al quarto giorno ho cominciato ad avere una stanchezza tremenda che non mi permetteva di alzarmi dal letto e il giorno dopo avevo di nuovo la febbre alta, che non scendeva nemmeno con un paracetamolo da un grammo, mal di testa e ancora una forte congestione nasale. Sono andata al pronto soccorso e dato che la febbre continuava a salire i colleghi all’inizio volevano ricoverarmi, ma dato che non c’erano sintomi di gravità perché non avevo insufficienza respiratoria, né polmonite, ci siamo convinti che potevo curarmi a casa. Però sono stata fortunata perché non ho avuto né la tosse né i problemi respiratori che invece, purtroppo ho visto in molti pazienti. Come sappiamo quanto più aumenta l’età più il rischio è alto. Il coronavirus può uccidere i più anziani o le persone con patologie previe anche in 24 o 48 ore.
Quando prevede che si possa tornare a una situazione di normalità in Italia e in Spagna?
Fare previsioni è difficile perché moltissimo dipende dal livello di isolamento che siamo capaci di generare. Bisogna sempre tener presente che quando si decide un’azione sociale il risultato lo si vede dopo due settimane. I fattori che incidono sono numerosi. La temperatura, la disciplina delle persone, la composizione dei nuclei familiari. Non è la stessa cosa vivere in tre in un appartamento di 250 mq in un quartiere bene di una città, piuttosto che in otto in un piccolo appartamento di un quartiere popolare. Stimo vedendo il picco dei contagi intrafamiliari. In ogni caso la diffusione sta rallentando un po’ ma dirlo è poco conveniente perché se no la gente abbassa la guardia. E non possiamo permetterci di rilassarci.
Com’è la situazione dal punto di vista della ricerca?
Nella lotta al coronavirus il lavoro di ricerca è frenetico a livello internazionale. Io non ho mai visto tanta attività scientifica mondiale diretta allo stesso problema in contemporanea. È davvero impressionante. Noi medici abbiamo le nostre chat attive 24 ore al giorno sette giorni su sette. E c’è uno scambio di informazioni permanente. Quindi, se non stai visitando un malato, sei sempre connesso. Io e altri colleghi ci siamo eliminati da qualsiasi gruppo che non fosse quella dedicato al Covid perché mi si bloccava il cellulare in continuazione. Alcuni giorni si passano anche 16 ore al telefono. Il mio è semi distrutto da quando è cominciata la pandemia…
Che cosa possiamo aspettarci? Un vaccino, dei nuovi farmaci?
Per quanto riguarda il vaccino i tempi sono necessariamente lunghi perché ci vogliono almeno 18 mesi per passare tutti i test di sicurezza. Per i farmaci la ricerca è intensissima e si rivolge alle due grosse componenti della malattia scatenata dal coronavirus: da una parte il virus che si replica e danneggia il corpo, in particolare i polmoni. Dall’altra, la risposta infiammatoria che genera il nostro stesso corpo, che è eccessiva e finisce per danneggiarlo. Per questo si stanno testando vari antivirali e tante combinazioni con antinfiammatori.
C’è qualche aspetto positivo, qualche aneddoto o considerazione che ci possa aiutare a superare questo momento di lotta al coronavirus?
In molti aspetti questa situazione sta tirando fuori il meglio di tanta gente. Io per esempio da quando sono malata realizzo telefonicamente tutte le visite ai miei pazienti ed è emozionante vedere l’affetto delle persone che ti chiedono come stai e ti dicono di essere preoccupate per te. Anche la capacità dei medici di organizzarsi, di lavorare senza orari e di collaborare è incredibile. Una storia delle tante che ho vissuto: un collega mi chiama da una residenza di anziani un sabato sera alle undici, mentre sto uscendo dall’ospedale, e mi dice: “Eva mi stanno morendo tutti i vecchietti. Ho bisogno di ossigeno e di sapere quanto mi dura una bombola da 50 litri. Ho chiamato tutti, ma nessuno riesce a farmi avere questo ossigeno e non so nemmeno quanto ne devo chiedere, aiutami a fare il calcolo”. Gli rispondo che devo chiedere alla collega che si occupa delle prescrizioni di ossigeno, perché io di solito, me lo trovo in ospedale già attaccato alla parete. Lei mi dice che bisogna fare la prescrizione di ossigeno per ogni paziente, uno per uno con nome e cognome. Le passo il contatto del mio collega della residenza e lei, domenica mattina, poche ore dopo perché di notte non avrebbero comunque consegnato le bombole, si è messa al telefono per fare la prescrizione a ciascun paziente della residenza.