Lunedì 8 marzo 2021. Un’altra Giornata internazionale delle donne. Una festa che non è una festa, perché celebra qualcosa che dovrebbe essere, ma non è mai del tutto. Uguaglianza di diritti, pari opportunità, identiche retribuzioni, assenza di violenza di genere.
Le statistiche ci dicono che in quest’anno di pandemia ancora una volta sono state le donne ad aver pagato il prezzo più alto. E mentre i femminicidi continuano a popolare le notizie di cronaca, lo scorso gennaio nell’europeissima Polonia è entrata in vigore una legge che sancisce il divieto di aborto. Stride un po’ la parola “festa” in questo panorama. Intanto decine di organizzazioni internazionali hanno lanciato per oggi 8 marzo il Women’s Global Strike (sciopero globale delle donne) con lo slogan “Se le donne si fermano, il mondo si ferma”.
In questi giorni in Italia generato non poche polemiche la dichiarazione di Beatrice Venezi che dal palco del Festival di Sanremo ha detto di preferire che la presentino come direttore e non come direttrice di orchestra. L’ala dura del femminismo si è scatenata per affermare che l’uguaglianza parte dalle parole. Capisco che culturalmente la parola declinata al maschile porti con sé un bagaglio di autorevolezza che al femminile probabilmente non ha ancora. Anche a me, sinceramente, è sempre piaciuto di piàessere definita direttore. Ma vivere in Spagna mi ha abituata ad usare il femminile delle parole. Qui a nessuno verrebbe in mente di usare director invece di directora nel riferirsi a una donna.
Le parole contano, è vero, ma io credo ancora più nei fatti. E i fatti dicono che una giovane donna di talento ha avuto successo in un settore per molto tempo riservato agli uomini. Come voglia essere chiamata è affar suo, perché la solidarietà di genere parte anche dall’accettazione di chi non la pensa come noi. Non ricordo se quando ho avuto modo di presentarla nel corso di un evento l’ho chiamata al maschile o al femminile. Ma ricordo bene che il suo intervento è stato molto applaudito. E questo è quello che deve importare, non il colore dei capelli, il vestito o la definizione su un biglietto da visita.
Io ho cominciato a lavorare in Italia nei primi anni novanta, quando le porte per noi donne in molti ambiti erano già aperte. I gradini più alti, tuttavia, erano sempre e solo occupati da uomini. Appartengo a una generazione che ha sgomitato per farsi largo, ma sono stata fortunata. Sono sincera, non ho mai ricevuto proposte indecenti e dove sono arrivata, nel mio piccolo, sono arrivata da sola. Il #metoo (per fortuna) non mi riguarda.
La missione delle donne oggi: valorizzarsi reciprocamente, collaborare, crescere insieme
Oggi vedo giovani donne straordinarie emergere in settori che ai miei tempi erano solo per pioniere (che stimo infinitamente). Donne che eccellono in ruoli e professioni un tempo considerate appannaggio degli uomini, ma che spesso, va detto, lo fanno pagando prezzi ancora troppo alti in termini di rinunce e sacrifici. Ne ho intervistate a decine in questi anni e ogni volta ho sentito nei loro racconti la fatica della scalata, ostacolata quasi sempre da uomini che non credevano nelle loro possibilità. Lo “sgomitare” è ancora un obbligo. Una volta arrivate in vetta, tuttavia, molte di loro hanno conquistato stima e rispetto, ma hanno provocato anche, e qui viene la parte forse più dolorosa, invidia. E l’invidia, fa male dirlo, è spesso donna.
Siamo tutte solidali davanti agli slogan dell’8 marzo, ma quando si tratta di difenderci, di promuoverci, di valorizzarci tra di noi, non sempre siamo disposte a farlo. Generalizzo, ovviamente, ma parlo per esperienza. Sebbene veda sempre più iniziative promosse dalle donne per le donne, nel quotidiano vedo anche il fiorire di piccole e grandi rivalità che non fanno bene alla causa comune. Vedo tante belle parole spese sui social, ma quando si tratta di mettersi in gioco per costruire qualcosa c’è sempre chi tentenna nel timore di vedersi rubare i riflettori dalla collaboratrice, amica, socia o collega. Ho visto donne “arrivare” e dimenticarsi da dove erano partite. Un peccato. Uno spreco di risorse.
Dedicare una giornata alla donna non sarà più necessario quando le donne sapranno davvero essere solidali fra loro, accettando per prime che “il capo” sia “una capa”, o applaudendo la promozione di una collega senza toglierle il proprio appoggio o ancora, sostenendo quelle di noi che per mille motivi possono trovarsi in difficoltà. Nessuna lo ammette mai. Ma alle donne il successo di altre donne, irrita spesso più di quello di un uomo.
Cosa dire invece degli uomini? Stanno cambiando? Io credo di sì. Nonostante le resistenze che ancora esistono, vedo nuove generazioni più sensibili ai temi della parità. Lo sento spesso nei racconti delle giovani imprenditrici, artiste o startupper che alle prese con la maternità mi dicono: “Non avrei mai potuto fare quello che ho fatto se il mio compagno/marito non fosse stato così presente e flessibile”. E allora sì che mi viene voglia di festeggiare.
Purtroppo, il pianeta che ci ospita è un luogo molto vasto e densamente popolato. E quello che si celebra dalle nostre parti, non vale per milioni di altre donne condannate all’ignoranza e alla sottomissione. Donne che nemmeno sanno che esiste l’8 marzo. Per loro, ma anche per noi, per le nostre figlie e nipoti, dobbiamo continuare a lavorare. Finché non ci sarà più bisogno di una Giornata Internazionale delle donne. Perché ogni giorno sarà il nostro.