Quando ti racconta la sua intensa storia di vita ti dà la sensazione di essersi ritrovato per caso e quasi senza sforzo in ogni esperienza di successo vissuta. In realtà, dietro a ogni conquista di Gianluca Redolfi, imprenditore, Chief Business Officer e co-fondatore di Sateliot, startup tecnologica che promette di rivoluzionare il mondo delle telecomunicazioni in tutto il pianeta, c’è una grande voglia di fare, unita a una straordinaria curiosità e a un’inconsueta capacità di cogliere il lato positivo delle cose.
Nato a Trieste, vissuto in dieci paesi, e da anni residente a Barcellona, città che fin da ragazzo lo ha visto andare e venire durante i suoi spostamenti per il mondo, Gianluca Redolfi con alcuni soci, nel 2019 ha dato vita a un progetto che fino a pochi mesi molti etichettavano come un po’ folle: democratizzare l’accesso alle telecomunicazioni per satellite a livello planetario attraverso un sistema di connessioni a prezzi accessibili (Sateliot di fatto nasace dall’unione della parola satellite con IOT, ovvero Internet of things). Una strategia che si sviluppa nell’ambito di quella che è stata ribattezzata New Space Economy, che permette di costruire e lanciare satelliti a costi limitati ed offrire estensioni di rete cellulare senza confini. Un’innovazione utilissima, in grado di migliorare la vita delle persone e l’uso delle risorse del pianeta. Un progetto che sta decollando a tempi record, tanto che dalle sei persone del 2019, la società è passata a 50 dipendenti di 15 nazionalità diverse, con una sede anche a San Diego in California.
Conoscere il percorso di vita di questo ingegnere atipico, come ama definirsi, è motivante, oltre che istruttivo, perciò, prima di addentrarci nei dettagli della sua più recente attività, l’intervista non può che cominciare dalle sue prime esperienze che già rivelano l’indole dell’innovatore.
Gianluca, ti sei trasferito per la prima volta a Barcellona da ragazzo, ancora prima di laurearti, per fare una nuova esperienza e hai finito per fare subito business. Com’è andata?
Avevo trovato un lavoretto in una grande multinazionale di trasporti. Mi occupavo delle bolle di consegna e avevo a che fare con i camionisti. Lo spagnolo l’ho imparato con loro. Era il 1996, a quell’epoca si faceva ancora tutto a mano. Un giorno vedo un computer per terra in un angolo di una delle stanze dell’ufficio. Chiedo cos’è e mi dicono che l’avevano mandato dalla Svizzera e lo usavano solo una volta al mese per trasmettere dei dati alla sede centrale. Da quel momento tutti i pomeriggi alle 17.30, quando finivo di lavorare, me lo mettevo sulla scrivania e stavo lì a programmarlo fino a tardi. Dopo qualche mese, ho creato un programma che automatizzava il mio lavoro per la distribuzione dei prodotti di Apple in Spagna e l’ho mostrato ai miei capi che erano contentissimi e hanno finito per comprarmelo anche per le filiali di altre nazioni.
Ti laurei in ingegneria elettronica a Trieste nel 1998. Trovi subito lavoro?
Sì, lavori tecnici molto interessanti che però mi hanno fatto capire che il mestiere non mi è troppo congeniale, mentre un po’ alla volta vedevo sempre piu chiaro che il marketing mi si addiceva di più. Credo che studiare ingegneria mi abbia dato la forma mentis, ma mi considero atipico, perché gli ingegneri di solito sono più chiusi, stanno sempre tra di loro, hanno i loro argomenti e vedevo che non era il mio mondo. Resto a Bruxelles per un anno e mezzo e poi all’Aia per un altro anno e mezzo. A quel unto capisco che non ho più voglia di stare nei paesi del Nord Europa. Voglio il sole, le palme e gente allegra e visto che a Barcellona avevo degli amici, e mi piaceva, decido di tornarci.
Una nuova sfida?
Sì. Una persona mi segnala un’opportunità di lavoro in una società nuova, dove mi dovevo occupare di telecom asset management. Un importante progetto in cui occorreva creare tutto da zero e trovare un direttore generale, così a 29 anni mi ritrovo a fare colloqui a manager molto più grandi di me, finché il Gruppo sceglie di dare a me il ruolo per la Spagna. Resto qui un anno e mezzo e per qualche tempo faccio anche il pendolare tra Barcellona e Parigi e mi occupo anche della Francia. Quando arriva la crisi l’azienda si vede obbligata a chiudere tutti gli uffici in Europa. Io resto senza lavoro, perciò mi metto in società con tre amici per sviluppare una nuova idea.
Prima volta come imprenditore?
Esatto. Ascoltando le storie della gente che raccontava che era stancante dover fare centinaia di chilometri in auto solo per controllare se un muro era stato tirato su in un cantiere di un’altra città mi era venuta l’idea di mettere delle telecamere sulle gru, poi digitalizzare le immagini e vedere a distanza cosa accadeva nei cantieri. Oggi sembra scontato, ma all’epoca era innovativo e il momento era propizio perché in Spagna c’era il boom immobiliare. Avevamo anche brevettato un casco con telecamera che ti permetteva di muoverti per il cantiere e potevi vedere da lontano cosa succedeva. Il business andava abbastanza bene anche se eravamo tutti molto giovani e ci mancava esperienza imprenditoriale. La crisi economica mondiale ci creò molti problemi, io uscii dalla società e mi misi a cercare qualcos’altro.
Ti devi reinventare per l’ennesima volta ma nel frattempo ti sei sposato…
Mi sono sposato con una ragazza spagnola conosciuta a Madrid e nel gennaio 2006 è nato mio figlio Lorenzo. Sono tornato a lavorare come manager per diverse società, viaggiavo tanto. Poi è arrivata la proposta di spostarmi a Dubai. Mia moglie però ha preferito restare col bambino alle isole Canarie. Per andare a trovarla ci mettevo 24 ore perché non operavano voli diretti con la Spagna. Dovevo prendere tre voli ogni dieci giorni per vedere il mio piccolo…
Sono rimasto là due anni, di cui uno passato lavorando in Arabia Saudita aiutando a lanciare una nuova rete di telefonica mobile che aveva pagato seimila milioni di dollari… all’epoca la licenza 3G piu cara al mondo . Facevo un po’ di tutto: HR, marketing, commerciale, pricing… Chiuso il progetto sono rientrato a Gran Canaria, dove pensavo di prendermi un po’ di tempo per restare di più con la famiglia, ma dopo un mese mi hanno offerto un nuovo progetto che mi ha portato a Madrid.
Sembra che le opportunità ti vengano sempre a cercare. Come fai?
Sono una persona che si impegna a fondo per trovare soluzioni ai problemi, più che parlarne e credo che questo aiuta sempre. Non credo molto alla fortuna, ma chiaramente a volte può anche essere una componente decisiva. Le persone mi danno fiducia, forse perché ho sempre mantenuto quello che ho promesso. Ho tanta voglia di fare e anche questo mi viene riconosciuto. Credo che un altro dei miei pregi sia la lealtà. Sono sempre stato molto onesto. E credo che si possa avere successo, sia quale sia la definizione, essendo corretti. Non credo alle scorciatoie.
Nel tuo CV si legge che uno dei soggiorni più lunghi all’estero è stato quello in Algeria dove hai trascorso ben nove anni lavorando per il piu grande gruppo di telefonia mobile. Com’è stato essere expat in una realtà così diversa dalla nostra?
Inizialmente dovevano essere solo quattro settimane, ma la progressione del business è stata molto forte e sono rimasto. Siamo passati da un giro d’affari di 180 milioni di dollari del 2008, quando sono arrivato, a 1,2 miliardi quando sono andato via, nove anni dopo.
In Algeria sono stato molto bene, chiaramente è un mondo differente e molto interessante, devi saperti adattare. Per esempio l’offerta di attività per il tempo libero è molto ridotta e si organizzano molte più cose a casa Questo, con il fatto che la comunità locale internazionale è molto limitata, crea un effetto positivo. Rispetto a una grande metropoli, dove le conoscenze sono rapide e sfuggevoli, ti devi sforzare per conoscere meglio le persone e quindi riesci a fare amicizie molto più solide e durature. Ho creato ed ancora mantengo amicizie fantastiche di quell’epoca.
Come hai vissuto in una cultura molto differente come quella algerina, tu che venivi da esperienze di ogni tipo anche nell’avanzatissimo Nord Europa e negli States?
L’Aalgeria è un paese nel quale la vita quotidiana è molto differente dalla nostra, diciamo che per noi è un po’ “vintage”, ma ha comunque il suo fascino. In Algeria ci ho messo molta energia, per guidare i team di persone da un lato devi vigilare in modo che il livello di lavoro non si abbassi troppo, ma devi anche essere tollerante, insomma vivi cercando di mantenere un equilibrio costante per raggiungere il successo. Sono arrivato ad avere piè di duemila persone a carico e devo dire che è stato fantastico, una vera scuola di intelligenza emotiva.
Cosa ti ha spinto a lasciare l’Algeria?
In Algeria ho trascorso nove anni fantastici e, dopo aver divorziato, ho anche conosciuto il più grande amore della mia vita. Però in quei paesi dopo troppo tempo rischi di abituarti a una vita lontana dai parametri della modernità, perciò è importante cambiare.
Sei tornato in Spagna nel 2016, ben tre anni prima di fondare Sateliot. Quale obiettivo avevi?
Volevo fare un anno sabbatico ma non ci sono riuscito nemmeno questa volta. A Barcellona ho provato ad occuparmi di investimenti immobiliari ma non faceva per me. Io ho bisogno di azione. Una persona che avevo conosciuto negli States anni prima mi chiede di lavorare con lui come Vice-presidente di una nuova startup a Palo Alto, in Silicon Valley. Ho fatto le valigie e sono partito pensando di restare là qualche mese, ma alla fine l’esperienza, tanto per cambiare, è durata un anno e mezzo.
Dopo Palo Alto sei rientrato a Barcellona dove nasce il progetto Sateliot. Per chi non è del settore questo è un mondo complesso. Che cos’ha Sateliot di tanto rivoluzionario?
Siamo partiti dalla creazione e promozione di un sistema standard che unificasse il modo di connettersi ai satelliti e lo rendesse più facile ed economico (come era stato per il GSM anni fa nei cellulari). Siamo riusciti a spiegarne l’utilità e questo standard è stato approvato nel giugno 2022. Una vera rivoluzione perché possiamo offrire l’estensione di copertura delle reti cellulari nei luoghi più remoti in ogni parte del pianeta, dove oggi nessun cellulare puà arrivare.
Che vantaggi porta questa estensione?
Il nostro focus principale non è la rete cellulare bensì l’Internet of things. Il motto di Sateliot è “Because a connected word is a better word”. Oggi le reti cellulari sono fatte per dare copertura dove ci sono essere umani, ma non dove ci sono le cose. Qui c’è un gap importante che Sateliot vuole colmare. Partiamo dal presupposto che gli esseri umani hanno sempre voglia di misurare tutto, perché quando puoi misurare puoi aver progresso. Vogliamo sapere che ora è esattamente, quanto abbiamo camminato, quante calorie abbiamo bruciato etc. Non c’è limite alla misurazione. Le cose che puoi misurare nell’Internet of things sono infinite. C’è già un ecosistema enorme di aziende che usano queste misurazioni per dare un valore alla loro attività, ma sono limitate nelle loro installazioni alla presenza di rete cellulare che copre solo il 15% del pianeta.
Quali applicazioni concrete può avere l’innovazione di Sateliot?
Oggi lo spazio è come il Gold Rush della California del 1800. C’è ancora tutto da fare. Sateliot è il pirmo operatore capace di fornire servizi in zone oggi impossibili da raggiungere. Abbiamo aperto una strada per fare migliore e più sicuro il mondo, perché permetterà di misurare ed agire sulle cose da remoto. Per esempio, se una persona cade in mare o se una barca affonda in zone non coperte da rete cellulare oggi si può solo intervenire presenzialmente. Ma se c’è un sensore, che costa pochi dollari e sarà ben presto presente in ogni giubbotto di salvataggio o nello scafo, la ricerca sarà immediata. Anche nell’agricoltura o nell’allevamento ci sono infinite applicazioni. Si possono controllare le coltivazioni, il livello di acqua degli abbeveratoi, lo stato di salute delle api negli alveari o qualsiasi altro dato utile stando a centinaia di chilometri. Il tutto a costi contenuti. In altre parole, Sateliot rende possibile la digitalizazione del pianeta in situazioni impraticabili fino ad oggi.
Quali sono gli ostacoli che dovete affrontare? Cosa potrebbe andare storto?
Fino a poco tempo fa quando parlavamo di Sateliot e della nostra idea tutti ci ridevano in faccia. Oggi questo scoglio è superato e adesso i nostri interlocutori sono tutte le più grandi aziende tecnologiche del mondo. Partiamo con un vantaggio commerciale di un paio d’anni sulla concorrenza visto che, rischiando, avevamo progettato i nostri satelliti anche prima che lo standard venisse approvato. Le nostre sfide ora sono due: i soldi e il tempo. I challenge tecnici ci sono, ovviamente, ma abbiamo fatto prove sia in laboratorio che nello spazio e siamo tranquilli. La cosa importante per poter lanciare i satelliti è ottenere i finanziamenti per costruirli.
Sateliot punta ad essere un unicorno?
Certo! Il nostro obiettivo nei prossimi tre anni e’ di avere una revenue di un miliardo di dollari e un EBITDA di 350 milioni di dollari. In questo tipo di attività o la va o la spacca. Se funziona, come credo, ottieni un’economia di scala impressionante, perché puoi servire ogni parte del mondo, in pratica ogni centimetro del pianeta può essere raggiunto.
Quanto ti è servita la vita da expat per essere dove sei ora?
L’esperienza con tante culture differenti ti aiuta a capire le persone che hai davanti. Non per manipolarle, ma per avere una comunicazione più fluida, vale per il business ed anche, chiaramente, per la vita privata.
Credi che essere italiano sia stato un vantaggio o un problema per la tua carriera?
Ho viaggiato molto e credo che uno dei passaporti più belli che si possa avere sia quello italiano. Nelle aziende in giro per il mondo gli italiani li trovi sempre a livelli altissimi. Facciamo le cose con passione e non siamo solo pasta pizza.
Cosa fai quando non lavori?
Faccio tanto sport: tennis, beach volley sci, bici, camminate in montagna. Mi piace anche leggere, scrivere e dipingere. A casa mia i quadri alle pareti sono i miei.
Quel è il sogno della tua vita?
Essere circondato da gente che mi vuole bene. La felicità è molto più elementare e a portata di mano di quello che si crede.
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